Il Coronavirus ci sta spingendo a metterci in discussione. Stiamo attraversando una crisi identitaria che si porta dietro la perdita di certezze, la scoperta di un nuovo modo di vivere lontano dalle abitudini a cui eravamo affezionati, nuovi movimenti emotivi che non abbiamo scelto, ma in cui ci siamo ritrovati catapultati all’improvviso. Ecco, un po’ una seconda adolescenza.
- Il coronavirus e la crisi identitaria
L’arrivo dell’epidemia da coronavirus è quasi paragonabile a una crisi identitaria.
È un po’ come se la nostra comunità fosse diventata di colpo un adolescente alle prese con la necessità di orientarsi tra nuovi ed emergenti valori. Nuovi ed emergenti in questo spazio e in questo tempo storico, ma forse già appartenuti a centinaia di adolescenti, ormai uomini delle vecchie generazioni, che in contesti diversi sono riusciti a farli propri, senza che fosse necessario l’arrivo di un virus a mettere in discussione il profilo antropologico dell’adulto di cui siamo rappresentanti.
Così il coronavirus è la tempesta ormonale che ci travolge inaspettatamente, senza chiederci se ci sentiamo o meno pronti ad affrontarla, la traccia di un’iperattivazione emotiva che percorre i nostri corpi e ci confronta con il pensiero della crescita e insieme a esso con quello della perdita e della morte. Sono le nostre mani e i nostri piedi che crescono in misura sproporzionata e come in una caricatura di noi stessi ci impediscono il movimento.
Un po’ come le misure di sicurezza imposte dalle istituzioni sanitarie a tutela della nostra salute; è la nascita del pensiero ipotetico e l’emergere, o meglio ancora l’esplodere, di quelle domande relative a come sarebbe la nostra vita se solo la vivessimo in maniera differente. Se non fossimo costretti dai ritmi soffocanti che caratterizzano le nostre giornate a viverla come facciamo. O a come saremmo noi se avessimo la possibilità di intrattenere un rapporto differente con noi stessi, con il nostro tempo e con chi ci circonda.
- La seconda adolescenza
Paradossalmente, dunque, a tutti succede qualcosa di simile a ciò che accade ed è accaduto a ognuno di noi in adolescenza.
Tutto all’improvviso si ferma. Qualcosa cambia. Non c’è tempo per voltarsi indietro. Non c’è più protezione: il mondo fatto di giochi, carezze e coccole della mamma, punti di riferimento in grado di mettere insieme ogni frammento della giornata e darvi un senso, lascia spazio a qualcosa di nuovo.
All’improvviso ho una nuova possibilità, sto cambiando. Sto crescendo. Mentre tutto si ferma, però, è tutto contemporaneamente in movimento, i miei pensieri cambiano, il mio corpo cresce e comincio a immaginarmi e pensarmi qualcuno: ma chi? Ora ho bisogno di tempo per scoprirmi. Per dire: sono io.
Improvvisamente chiudono bar, pub, discoteche, negozi, tutto si ferma. Non c’è tempo per guardarsi indietro, il coronavirus è arrivato, ci costringe a cambiare le nostre vite, a fare un salto.
Stiamo crescendo? Si, se crescere vuol dire scoprirsi, come fa un adolescente. Non c’è più protezione, quel mondo fatto di ritmi incalzanti, impegni, acquisti, domeniche al centro commerciale, spese al supermercato, timbri del cartellino, litigate in ufficio, aperitivi, compleanni, lauree, cocktail, farmaci e serate in discoteca non esiste più.
Tutto è fermo. Le misure di sicurezza che la Sanità impone mettono in discussione la nostra identità, fatta degli innumerevoli frammenti dei momenti della nostra vita a cui la quotidianità dà un senso.
Ma adesso abbiamo una nuova possibilità. E nella crepa che si produce tra le nostre care abitudini perdute in grado di non farci andare in pezzi, e i nuovi ritmi che l’emergenza sanitaria ci impone, anche noi possiamo sentirci adolescenti: affrontare il cambiamento, mettere in discussione il mondo che ci circonda, scoprire noi stessi e crescere.
- Il coronavirus e il ribaltamento del punto di vista
Sentirsi adolescenti è una possibilità preziosa. Ora che quella quotidianità avvolgente, rassicurante, ma talvolta alienante smette di essere ciò che scandisce le nostre giornate. Ci ritroviamo di fronte a un vuoto creativo. In questo spazio si apre la possibilità di riflettere sul mondo che ci circonda.
Ora che ci è concesso guardarlo da un punto di vista privilegiato, come se fosse in pausa, come se solo adesso fossimo in grado di scattargli una fotografia e osservarlo.
Osservare come l’economia e il consumo, che fino a un attimo prima definivano ciò che fosse o meno importante per noi, collassino perché il benessere dell’individuo e la tutela della sua vita torni a essere l’interesse principale di cui si preoccupano le nostre istituzioni.
Osservare come l’arrivo del virus sia stato in grado di trasformarci, con la stessa velocità con cui lo sguardo cattura la caduta di un fulmine, da discriminanti e razzisti a discriminati ed emarginati. L’Europa chiude le frontiere agli italiani.
Infatti, adesso non è più l’italiano medio a temere lo sbarco del clandestino sul suo territorio, ma il francese, il tedesco, il belga e l’europeo in generale che teme l’arrivo dell’italiano e a esso chiude ogni genere di ingresso.
Osservare come in una società digitale attraversata da legami virtuali, il virus ci tolga la possibilità di essere davvero vicini, abbracciarci, baciarci, toccarci. Ridere senza una mascherina che nasconde i nostri volti.
E così rivela la duplice natura dei social network, laddove essi sono in grado di disumanizzare il contatto umano ma oggi più che mai riescono a tenerlo insieme, a non farci perdere le tracce delle persone che non possiamo raggiungere, anche se a qualche passo di distanza.
Osservare come la solidarietà impone la sua forza come valore assoluto, laddove è necessario agire con un profondo senso di comunità, come corpo unico, tutt’uno con gli altri, proteggendo non più noi stessi ma l’uomo e il legame che esso intrattiene con la vita.
È un po’ come spogliarsi di tutto: prima di ogni altra cosa è spogliarsi di se stessi, per ritrovarsi in un luogo altro, dove la quarantena diventa introspezione.
Trasformare l’angoscia dell’ignoto in vuoto creativo, in crescita.
Rivoluzionare la nostra vita, svuotandola del senso che le abbiamo dato fino a oggi per dargliene uno diverso.
Trasformare la nostra adolescenza in un senso nuovo di adultità e di consapevolezza.
Fare di un tempo che sembra perduto, un’occasione per scoprire come si dice “questo sono io”.
Articolo a cura di Davide Ciccarelli, tirocinante psicologo.
mi presento...
Sono Davide Ciccarelli, laureato in Psicologia Clinica e di Comunità presso l’Università degli studi di Torino nel 2019. Attualmente impegnato come tirocinante psicologo presso il Centro di Etnopsichiatria Frantz Fanon e come educatore presso una comunità di minori, sto gettando uno sguardo più attento a quelle che sono le conseguenze della politica post-coloniale e dei fenomeni migratori in termini psicologici; e intraprendendo una riflessione sulle dinamiche relazionali dell’adolescenza. Laddove la relazione rappresenta il tessuto in cui la nostra mente è immersa, nel quale nasce e si sviluppa dando forma ai nostri caratteri, il contatto umano è la scelta che ha motivato e continua a motivare il mio percorso di approfondimento psicologico.